“Non è il ministro dell’Interno che decide chi è colpevole e chi no. Lo fa la magistratura con un processo, con il diritto alla difesa, con la presunzione di innocenza. Questo vale per tutti. Lo stesso vale per il controllo delle frontiere: le cui modalità sono stabilite dalla legge entro i limiti dei trattati internazionali e quindi se tra queste persone ci sono persone che non hanno diritto di entrare, che devono essere rimpatriate e che possono essere rimpatriate, verranno rimpatriate”. Non ha esitazione alcuna Cesare Pitea, professore associato di Diritto internazionale all’Università Statale di Milano, che ilfattoquotidiano.it ha interpellato nelle ore calde del primo salvataggio di naufraghi al largo della Libia effettuato da una nave di una ong a bandiera italiana. Le ore in cui, mentre la Mare Jonio di Mediterranea Saving Humans correva a ripararsi dalla burrasca al largo di Lampedusa, il Viminale produceva a tempo record una direttiva di una decina di pagine per fermare quelle che ha definito “azioni illegali delle ong”, vincolando chi effettua dei salvataggi ad “attenersi alle indicazioni degli Stati di area Sar”. Un provvedimento, per il professore “che ha chiaramente l’obiettivo di giustificare attraverso il diritto internazionale un’operazione di chiusura delle acque territoriali, che poi non è neanche avvenuta, a una nave battente bandiera italiana, indicando nel problema il fatto che la nave italiana non abbia riconsegnato i migranti salvati alla guardia costiera libica”. Secondo Pitea, infatti, “l’uso del diritto internazionale è evidentemente strumentale e non si può non notare che in questo documento di 8 pagine non ci sia neppure un riferimento agli obblighi internazionali dell’Italia in materia di diritti umani. Che sono anch’esso obblighi di diritto internazionale”.

Intanto però il ministro degli Interni, Matteo Salvini, ha dichiarato di attersi degli arresti …
A me che le persone vadano in carcere non fa piacere, non traggo piacere dal vedere che le persone finiscano in galera, quando succede, penso che sia comunque una sconfitta per la società. Io sono per il principio di legalità e per la responsabilità. Quando Salvini dice “arrestateli, questi sono trafficanti”, commette una violazione dei diritti fondamentali, che è la violazione del principio di innocenza. Su questo c’è una giurisprudenza della Corte europea dei diritti dell’uomo che è granitica: in uno Stato di diritto non è il ministro degli interni che decide se qualcuno è un criminale o meno. Ammesso e non concesso che il capitano della nave x abbia commesso degli illeciti e in particolare degli illeciti di rilevanza penale, non si risponde dicendo che la nave non può entrare. Se tra i naufraghi ci sono dei terroristi, non si risponde dicendo che nessuno può entrare. In uno Stato di diritto si tutelano i diritti delle persone innocenti (a bordo spesso ci sono minori e persone con problemi gravi di salute), non si addossa a loro la responsabilità di chi in ipotesi è connivente con i trafficanti o è un potenziale terrorista. Il connivente va neutralizzato con gli strumenti del diritto: c’è una magistratura, quindi una procura aprirà un’indagine, ci sarà un giudice che deciderà e chi ha commesso delle fattispecie penalmente rilevanti ne risponderà. A meno che non sia il ministro degli Interni perché lui gode dell’immunità e non ne risponde comunque.

E poi va anche a trovare i criminali in carcere …
Su questo devo dire che da un punto di vista giuridico non c’è niente di male. Credo che sia giusto e difendo a spada tratta il diritto di un parlamentare e di un’autorità di entrare in qualsiasi luogo di detenzione, in qualsiasi momento, da qualsiasi detenuto per qualsiasi motivo, perché questa è una garanzia fondamentale. Perché poi il ministro decida di esercitarla in quel modo, è un motivo diciamo politico. Posso essere d’accordo o meno con il messaggio che comporta, ma io difenderò sempre il diritto di un’autorità di visitare chi si trova in uno stato di detenzione. Però vorrei che lo stesso diritto fosse garantito ai migranti che si trovano in uno stato di restrizione della libertà. Quindi se ci sono parlamentari che vogliono salire sulla nave Diciotti, non bisogna impedirglielo. Vale per tutti.

Veniamo alla direttiva del Viminale, diceva dei diritti umani che vengono trascurati
La Corte Europea dei diritti umani ha affermato chiaramente che la Convenzione europea dei diritti umani è applicabile nel contesto di operazioni di contrasto all’immigrazione irregolare in alto mare. Anche in presenza di atti dello Stato costiero volti a impedire l’ingresso di una nave nelle acque territoriali. Queste norme impediscono allo Stato di adottare delle condotte che espongano le persone a bordo al rischio di subire trattamenti inumani e degradanti. Come il rinvio delle persone in uno Stato dove corrano tale rischio. Questi obblighi hanno natura assoluta, non sono soggetti al contemperamento con altri interessi, anche rilevanti, dello Stato. Inclusa la sicurezza nazionale. Nel provvedimento del ministero queste cose sono state completamente trascurate.

Cosa succede in caso di violazione dei diritti umani da parte di uno Stato?
La Convenzione ha un sistema suo di accertamento della responsabilità. Le persone che hanno subito questo trattamento in violazione dei propri diritti, esauriti i ricorsi interni, se ce ne sono, potranno fare ricorso alla Corte. E l’Italia, se sarà accertata la responsabilità, sarà condannata eventualmente a un risarcimento del danno.

Ma è corretto sostenere che la direttiva dell’Interno ha chiuso le acque territoriali?
Non è un provvedimento di chiusura generale delle acque territoriali, è un ordine che viene impartito a una serie di autorità che hanno delle competenze in materia, al capo della Polizia, al comandante generale dei Carabinieri, della Guardia di Finanza, delle Capitanerie di Porto, alla Marina militare. Un ordine che, quando le navi delle ong si avvicinano alle acque o chiedono di entrare, impartisce di non farli entrare

I richiami al diritto internazionale però ci sono
Il riferimento alle norme di diritto internazionale del mare è spesso confuso, impreciso, sbagliato o discutibile. Per esempio si afferma che le navi straniere non godono del diritto di navigare nei mari territoriali di uno Stato costiero o di accedervi senza consenso di quest’ultimo. È un’affermazione che per uno studente di diritto internazionale varrebbe la bocciatura, perché sostiene che la possibilità per le navi straniere (che poi non è il caso attuale) di navigare nelle acque territoriali non sia un diritto. Ma il diritto di passaggio inoffensivo delle navi straniere non è un’eccezione alla sovranità, è una limitazione del potere esercitato dallo Stato costiero sul mare territoriale.

Ma il porto sicuro è un diritto o no? E la competenza di chi è?
La direttiva dà l’impressione che l’operazione in Sar sia “vado, tolgo i naufraghi dal mare, ed è finita lì”. Non è così. Perché la convezione Sar inequivocabilmente descrive l’operazione di soccorso come un’azione che comporta il recupero, ma anche la soddisfazione dei loro bisogni immediati, medici e di altra natura. E, infine, il loro sbarco in un place of safety, un posto dove la loro vita, i loro diritti fondamentali non sono messi in pericolo per unanime consenso sulla definizione. L’operazione di salvataggio si conclude con lo sbarco. Quanto alla competenza, secondo la convenzione di Amburgo nel Mediterraneo si opera una ripartizione di responsabilità per la ricerca e il soccorso. L’italia ha la sua, Malta, la Grecia, la Tunisia e la Francia hanno ciascuno la loro. Nel provvedimento si descrivono queste zone come se fossero zone di esercizio esclusivo di potere da parte dello Stato costiero. Ma non è così: l’istituzione di queste zone costituisce una modalità di ripartizione della responsabilità di predisporre dei servizi effettivi ed efficaci di ricerca e di salvataggio. Si tratta cioè di una responsabilità primaria, non esclusiva.

Quindi è un problema di tutti, indipendentemente da dove viene effettuato il soccorso?
Si, tutti gli Stati hanno la responsabilità di tutelare la vita in mare. Questa è una modalità di organizzazione scelta per renderla più effettiva. Dunque non si può sostenere come fa il provvedimento, che la responsabilità dell’Italia viene meno quando il centro di coordinamento libico ha formalmente assunto il coordinamento dell’evento e la responsabilità delle operazioni di soccorso. Per due motivi: il trasferimento delle responsabilità di coordinamento avviene solo se il centro a cui viene trasferita è effettivamente, non formalmente, in grado di portare a termine l’operazione di salvataggio. Questo implica che assuma effettivamente il coordinamento e che abbia le capacità, i mezzi per operare il recupero. E assicuri lo sbarco in un porto sicuro. E’ evidente che nessuna di queste tre condizioni è soddisfatta dalla Guardia costiera libica: spesso non rispondono, non intervengono e quando intervengono lo fanno con modalità che mettono ulteriormente in epricolo la vita e l’incolumità dei naufraghi. E anche quando li recuperano li portano in un posto che, non lo dico io, ma lo dicono l’Alto commissariato delle nazioni unite per i rifugiati e la Missione delle Nazioni Unite in Libia, non è un place of safety. È chiaro che non si può dire che una volta che loro hanno assunto il coordinamento noi possiamo lavarcene le mani.

E se invece chi ha preso in mano le cose ha le caratteristiche adeguate?
Anche quando il coordinamento è stato passato a uno stato terzo che abbia queste caratteristiche, la convenzione Sar dice che tutti gli stati coinvolti hanno l’obbligo di adottare tutte le disposizioni necessarie affinché lo sbarco avvenga as soon as reasonably practicable. Al momento ragionevolmente praticabile più vicino. Questo con l’obbligo di collaborare con lo Stato che ha assunto il coordinamento per l’individuazione di un place of safety. Tra l’altro è abbastanza particolare che l’Italia oggi dica di non dover partecipare, perché quando era il caso della Sea Watch diceva che l’Olanda aveva l’obbligo di farlo in quanto Paese di bandiera della nave.

Eppure la direttiva parla molto legalese
Si, ma ci sono una serie di affermazioni che sono discutibili o palesemente non veritiere: quando si dice che la Libia è un place of safety, quando si dice che c’è il rischio di infiltrazioni terroristiche, sulla base di cosa lo si dice? Un esempio su tutti: quando si dice che impedire lo sbarco è funzionale a impedire il conseguimento del profitto dei trafficanti è evidente che non ci sono basi fattuali all’affermazione. Innanzitutto perché il profitto i trafficanti l’hanno già conseguito, non li lasciano certo partire se non pagano. Secondariamente, se i migranti vengono riportati indietro, se sopravvivono subiscono un nuovo ricatto e quindi i trafficanti incassano due volte.

Articolo Precedente

Congresso famiglie Verona, cardinale Parolin: “Siamo d’accordo solo sulla sostanza”

next
Articolo Successivo

Ddl Anticorruzione e quelle regole che bloccano l’associazionismo. Terzo Settore: “Va sostenuto. Non represso inutilmente”

next