C’è un elefante nella stanza in cui il vice-presidente della commissione europea Margaritis Schinas e la commissaria per gli affari interni Ylva Johansson presentano il patto Ue sui migranti voluto dalla presidente Ursula von der Leyen. Il suo nome è Libia. Ciò che accade nel paese nordafricano lo sanno tutti. È così noto che ha quasi smesso di fare notizia. Un nuovo tentativo di squarciare il velo di ipocrisia dei governi europei, che negli ultimi 20 anni hanno scommesso proprio su Tripoli per contrastare i flussi, viene da Amnesty International che pubblica oggi il rapporto «Tra vita e morte. Rifugiati e migranti intrappolati nel ciclo di abusi libico».

Dentro risuonano le testimonianze di 43 persone, intervistate a distanza tra maggio e settembre 2020, che hanno subito o assistito ad arresti arbitrari, stupri, torture, sparizioni, lavoro forzato, detenzioni indefinite. «Mi picchiano, mi danno scosse elettriche. Soprattutto di notte e all’alba, quando i membri delle organizzazioni internazionali non ci sono», racconta Emmanuel. Nel suo paese era un avvocato, in Libia è stato detenuto per tre mesi in una struttura governativa.

L’inferno, spiega Amnesty, non è solo dentro i centri: minacce, furti, rapimenti, violenze, sfruttamento sono all’ordine del giorno anche per i migranti a piede libero. «Le milizie ci derubano per strada. Ci picchiano con le armi o minacciano con i coltelli. Le donne impiegate come governanti spesso lasciano il lavoro dopo pochi giorni per le molestie o gli stupri», racconta Zahra. Quando i rappresentanti delle istituzioni europee parlano di «solidarietà» e «responsabilità», più che ai rimpatri, è alla Libia che dovrebbero pensare